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domenica 18 settembre 2016

Impressioni di settembre: Erin Mellon Trio @Locanda Blues (17/09/2016)

Oggi vorrei recensire un giovane gruppo formato da sole ragazze: l'Erin Mellon Trio, esibitosi nella serata di ieri, 17 settembre 2016, presso la Locanda Blues, a Roma. La premessa fondamentale è che, nonostante non sia del tutto a secco in fatto di conoscenze musicali, esse non sono certo paragonabili a quelle di quanti lo fanno per professione (o, ancor meglio, per passione).

L'Erin Mellon Trio, un gruppo di genere folk nato nel 2013, è composto da tre ragazze romane: Alessandra Illuminati, Elisabetta D'Aiuto e Federica Mazzagatti. Il loro repertorio consiste non solo in cover di brani famosi ma anche in inediti originali, raccolti in un EP pubblicato lo scorso anno. A livello nazionale è degna di nota la loro esibizione sul palco di Italia's Got Talent durante l'edizione 2016.

Senza nulla togliere alle altre componenti, è proprio da Federica che vorrei iniziare, per un motivo fondamentale: ci conosciamo dai tempi del liceo, dal 2003, e siamo stati compagni di banco fissi per due anni. Mettendo da parte l'inevitabile componente affettiva di un'amicizia longeva, preferirei soffermarmi brevemente sugli aspetti puramente musicali e sulla sua evoluzione nel corso degli anni. Mentre l'ascoltavo, in particolare durante la sua interpretazione di "Impressioni di settembre" della PFM, mi sono ricordato di quando, da adolescenti pieni di sogni (ed era chiaro quale fosse il suo), ella si stupiva dell'estensione vocale di Chester Bennington, frontman dei Linkin Park. Ecco, oggi sono io a stupirmi della sua: trovo abbia uno spettro vocale non solo molto ampio, ma anche molto variegato al suo interno; una voce non solo sensuale, ammaliante, ma anche aggressiva, graffiante (in questo mi ha rammentato il suo periodo nei Killin' Katz, un gruppo di cui era precedentemente membro). Una voce poliedrica, senz'altro mai banale né apatica, in grado di comunicare le sue emozioni profonde così come quelle del pezzo (e quando queste corrispondono, GRANDE GIOVE!).

Ma tornando all'Erin Mellon Trio nella sua totalità, l'impressione che trapela vedendole e ascoltandole è che siano tre persone diverse: per personalità, per background musicale e per capacità vocali. Riferendomi nello specifico alla serata di ieri, accanto alla PFM cantata da Federica con l'accompagnamento delle sue amiche e colleghe troviamo "Jóga" di Björk, cantata da Alessandra in maniera sensibilmente più armoniosa dell'originale, e "Mad World" dei Tears for Fears, interpretata da Elisabetta in una versione più affine alla cover di Jules e Andrews sebbene con un ritmo più rapido e, in definitiva, coinvolgente. Le tre ragazze appaiono come organi diversi, ciascuno con le proprie funzionalità, che però riescono a dar vita e vigore a un unico, armonico organismo: l'Erin Mellon Trio, appunto. C'è fiducia, complicità, è come se fossero delle personalità diverse che convivono all'interno di un medesimo individuo, sebbene nessuna con l'intento di prevaricare le altre. Sono inoltre in grado di comunicare emozioni tra le più disparate utilizzando solo due strumenti: voce e chitarra. Parlando dei loro brani originali, la mia opinione è che, eccezion fatta per Yesterday, sia forse predominante la malinconia (e non è una critica negativa, figuriamoci, io ci sguazzo nello spleen), che riescono a comunicare in maniera decisamente originale, non adagiandosi su uno stereotipato blues. A questa potenza emotiva e capacità musicale a 360° riescono ad abbinare efficacemente una presenza scenica composta e umile.

Alessandra, Elisabetta, Federica: Erin Mellon Trio. Le trovate su FacebookSoundCloudTwitter e YouTube.

giovedì 1 settembre 2016

Toponomastica: Accumoli, Amatrice, Arquata del Tronto

In questa settimana si è dedicata, come è giusto che sia, tanta attenzione al terremoto che il 24 agosto ha colpito l'Alta Valle del Tronto. Nella speranza che i riflettori su quest'area non si spengano troppo presto vorrei dedicare anch'io un pensiero agli abitanti di quest'area a modo mio, ossia dal punto di vista linguistico. In questo intervento prenderò in considerazione l'aspetto toponomastico dei centri abitati più colpiti dal sisma: Accumoli, Amatrice e Arquata del Tronto. Perché si chiamano così?

Premessa metodologica: ove non diversamente specificato, la fonte primaria di questo mio intervento è da considerarsi il Dizionario di toponomastica, edito da UTET, nella ristampa del 2006. L'ordine di trattazione è puramente alfabetico.

Accumoli (RI). La località sorse intorno al 1211 a circa tre miglia di distanza dalle rovine di Summata o Sommata, antico e importante centro di quest'area. Il Dizionario di toponomastica cita direttamente il primo dei 13 volumi del "Dizionario geografico-ragionato del regno di Napoli" (1797-1805) di Lorenzo Giustiniani, le cui parole possono essere reperite qui ma che vale la pena riportare:
Si vuole che dopo la distruzione del Sannio fatta da' Romani un avvanzo di raminghi Sanniti fosse andato a ricoverarsi in quel luogo, fabbricandosi dispersamente parecchi villaggi, ed indi come capo de' medesimi una terra più grande chiamandola Accumoli, quasi dall'essersi colà congregati. Ella è però questa una tradizione [...] Anticamente era detta Sommata.
Il Giustiniani riporta Sommata come il nome originario della località; inoltre, accanto alle quattro occorrenze dell'odierno toponimo "Accumoli" troviamo un "Acumuli" e un "Accumuli", probabilmente emanazione grafica di un'incertezza fonetica. L'autore non trascura di specificare come si tratti di un'etimologia tradizionale, che sembra però trovare conferma nel latino cumulus, "cumulo, mucchio", da cui deriva anche l'abruzzese accumëlë, con lo stesso significato. Non si può tuttavia ignorare come vi sia uno scarto di oltre un millennio tra la fine della terza e ultima guerra sannitica a cui si riferisce probabilmente l'erudito partenopeo (290 a.C.) e la già indicata data di fondazione di Accumoli, 1211, proposta nel XIX secolo dallo storico locale Agostino Cappello. Appaiono dunque più plausibili, almeno da una prospettiva storica, le informazioni riportate sul sito istituzionale del Comune di Accumoli, secondo cui la nascita della libera Università di Accumoli si deve all'aggregazione politica di diverse località del territorio voluta dai signori delle Rocche in seguito alla decadenza della citata Summata. L'etimologia del toponimo non ne viene però intaccata.

Amatrice (RI). Sul toponimo della patria dell'amatriciana (in dialetto sabino Lamatrìci o L'Amatrìci) esistono tre diverse teorie. Una vuole che il suo nome sia dovuto alla presenza, in tempi lontani, della chiesa principale della zona, denominata anche "chiesa madre" o, in specifico riferimento ai dialetti meridionali, "matrice": il valore religioso di quest'area è ancora attuale, se pensiamo che Amatrice è anche nota per essere la città delle cento chiese. La seconda è quella proposta da Giovanni Alessio nel "Lexicon Etymologicum" (1976), il quale rintraccia l'origine nel latino matrix, nel senso traslato di "gora, canale" (senza specificare di quale "gora" o "canale" si tratti), con agglutinazione dell'articolo "(l)a": "(l)a matrice" > "(l)' amatrice". Viene inoltre proposto un parallelo con alcune voci dialettali, come il romagnolo antico matricale, "canale" e il napoletano mátrëchë, "melma, gora, pozzanghera", nonché con un toponimo simile, Matrice (CB). La terza e ultima ci viene suggerita dalla pagina web dedicata al comune del reatino de I borghi più belli d'Italia (di cui la località fa parte dal 2015), in cui leggiamo che Amatrice "sarebbe “La madre del Tronto”, ovvero Mater Truentum da cui “Ma-Tru’”, poiché il fiume nasce dai Monti della Laga, proprio in quest'area.

Arquata del Tronto (AP). Noto semplicemente come Arquata fino al 9 novembre 1862, anno in cui, per effetto del Regio Decreto n. 978, l'idronimo "Tronto" entrò nella denominazione ufficiale, anche su questo toponimo esiste della discordia. Il Dizionario di toponomastica UTET scarta immediatamente l'idea che l'etimologia sia da rinvenire nel latino arx, "rocca", supportando quanto proposto da Giulio Amadio in "Toponomastica marchigiana" (I, 1952) e ribadito da Giovanni Alessio nel "Lexicon Etymologicum" (1976), secondo i quali l'origine sarebbe piuttosto da rintracciare in arcus (arquus), da intendere come "curva, svolta, grotta, galleria". Tuttavia, nessuno dei due è in grado di fornire informazioni precise circa il referente fisico da cui deriverebbe il toponimo. Al contrario, essendo Arquata del Tronto nota per la presenza di una rocca medioevale, non appare del tutto inverosimile che alla base del suo nome vi sia proprio arx. Appare doveroso un breve cenno all'etimologia di "Tronto", derivante dal latino Truentus, a sua volta legato alla radice indoeuropea *dr(e)u-, "scorrere".

Dedicato alla memoria di chi non c'è più, alla forza di chi lotta per riprendersi la propria vita e al coraggio di chi dà loro una mano.

domenica 7 agosto 2016

Recensione: "I fiori blu" di Raymond Queneau (traduzione di Italo Calvino)

Negli ultimi tempi non ho scritto molte recensioni, complice una serie di fattori (tra i quali, in primis, la pigrizia), ma nel caso di questo romanzo non potevo assolutamente esimermi dal farlo, sia perché è un libro molto divertente e che consiglio a tutti di leggere, sia perché in esso (come in gran parte dell'opera queneauiana) la distorsione linguistica è un elemento fondamentale ed è stata ben resa (e spiegata) da Italo Calvino nella sua traduzione dal francese all'italiano. Il romanzo fu originariamente pubblicato in Francia da Gallimard nel 1965, per giungere due anni dopo nelle librerie italiane grazie a Calvino e Einaudi, nel cui catalogo compare ancora oggi (collana ET Scrittori).

Per maggiori informazioni potete consultare la pagina Wikipedia relativa a quest'opera, mentre per la recensione potete cliccare su questa breve ma intensa citazione tratta dal testo francese:
"Rêver et révéler, c'est à peu près le même mot"

sabato 6 agosto 2016

Collutorio non colluttorio

Viviamo in un momento storico in cui la lingua italiana è particolarmente soggetta a quelle che, non senza una punta di purismo, non posso che considerare violenze linguistiche: è ormai ben noto il caso della locuzione piuttosto che impropriamente utilizzata col significato disgiuntivo di "o, oppure", per non parlare della sregolata diffusione degli anglismi (e non anglicismi perché, come fa notare Tullio De Mauro in un recente articolo, trattasi di anglismo). Vorrei però spezzare una lancia in favore di un termine che è quotidianamente vittima di vessazioni; paradossalmente, in molti casi, esse provengono da quello stesso organo che il referente di tale parola si prefigge di curare. Sto parlando del medicamento liquido utilizzato a scopo igienico o terapeutico all'interno del cavo orale, comunemente noto come collutorio.

Con una sola "t", non con due. Parafrasando l'Appendix Probi: collutorio non colluttorio.

Incrociando i dati reperibili da diversi dizionari e vocabolari in rete (De Agostini, Sabatini Coletti, Treccani) con il mio fedele Zingarelli 2001 cartaceo otteniamo due informazioni fondamentali, relative all'etimologia del termine (dal latino collūtus, participio passato di colluĕre ‘risciacquare’, composto da  cŭm ‘con’ e luĕre ‘lavare’) e alla sua prima attestazione in italiano (1830). Una sola "t", dunque. Il Treccani, inoltre, riporta come "erroneo" l'utilizzo di *colluttorio, mentre per lo Zingarelli è "da evitare".

Eppure, a voler dar ragione alle pubblicità che passano in TV (tanto potente quanto decaduto strumento di diffusione della lingua), sembra proprio che la pronuncia corretta preveda due "t"! L'influenza del parlato (specie di quello televisivo) sullo scritto è tale che, effettuando una semplice ricerca su YouTube alla data di oggi (6 agosto 2016), otteniamo 2.550 risultati con "colluttorio" e 1.540, un migliaio in meno, con "collutorio". C'è da dire che spesso tali risultati si sovrappongono, per effetto dell'incongruenza tra titolo e descrizione di un medesimo video, il che porta a una doppia indicizzazione. Ma vi sono anche casi in cui titolo e anteprima di un medesimo filmato si contraddicono:


Le incoerenze non sono però solo di tipo grafico. Tra i risultati della ricerca svolta utilizzando la grafia corretta troviamo infatti molti video promozionali (televisivi ma non solo) e opinioni di dentisti e igienisti dentali riguardanti questo prodotto, ma i casi in cui anche la pronuncia è corretta si contano sulle dita di una mano (e ne avanzano persino). Personalmente, mi sono talvolta imbattuto in questa doppia dicitura al supermercato, in riferimento addirittura al collutorio di una stessa marca, dove però un cartellino identificava il prezzo pieno, mentre l'altro era quello scontato. Devo poi ammettere di aver detto anch'io per anni *colluttorio per effetto del parlato televisivo, salvo poi rendermi conto di come sia scritto!

Google ci fornisce un quadro diametralmente opposto rispetto a YouTube: 268.000 risultati per "collutorio", "solo" 226.000 per "colluttorio". Trovo estremamente interessante e confortante notare come, nel primo caso, il primissimo risultato sia "COLLUTORIO O COLLUTTORIO?", estratto da La grammatica italiana Treccani; questi è al secondo posto nella seconda ricerca, dove primeggia invece "Collutorio o colluttorio?", in cui l'opinione circa la grafia corretta ci viene da una delle aziende più importanti nel settore, forse l'unica ad avere un'idea chiara riguardo anche alla pronuncia.

Per Treccani, "la forma errata *colluttorio [...] si deve forse al modello di parole come colluttazione", mentre secondo De Agostini "per lungo tempo la forma *colluttorio con due t è stata piuttosto diffusa perché molte case farmaceutiche scrivevano così sulle confezioni; poi le scritte sulle confezioni sono state corrette e la forma con due t ha cominciato a regredire". Qualunque sia la sua reale origine, sembra si sia ancora in tempo per salvare la forma corretta, sia grafica che fonetica, grazie anche a una crescente coscienza linguistica da parte degli italofoni. Vorrei chiudere questo intervento prendendo in prestito le parole della succitata azienda:
Scrivere quindi collutorio al posto di colluttorio è un buon modo per iniziare ad eliminare non solo i batteri ma anche gli errori.

domenica 15 maggio 2016

La Tempesta, lo stoccafisso e la Lega Anseatica (ovvero: Dell'arte di saltare di palo in frasca)

L'altroieri ero intento nella lettura de La Tempesta di Shakespeare (The Tempest, 1610-11) quando, a un certo punto, m'imbatto nel termine "stockfish". Illuminazione istantanea: "stoccafisso" deve venire da qui!
(a parte) Quando sento o vedo parole straniere incredibilmente simili all'italiano mi capitano di queste illuminazioni. Sarà per questo che mi danno del fulminato.
La mia reazione è stata quella di lanciare subito una ricerca in Google, passando per TreccaniOxford DictionariesWiktionary e WordReference, fino ad arrivare a diversi articoli che trattano l'argomento "stoccafisso" da diversi punti di vista: ultima in ordine di tempo, Stefania Elena Carnemolla appena dieci giorni fa.

Sia in inglese che in italiano si tratta di una modalità di conservazione del merluzzo nordico (detto anche "bianco" o "artico"), la cui denominazione scientifica è Gadus morhua. Sembra che entrambi i termini condividano l'origine dal medio olandese "stocvisch", letteralmente "pesce (visch) bastone (stoc)", che può riferirsi tanto alla forma di queste creature quanto ad una loro modalità di essiccazione, la quale prevede che siano appese a un grande bastone, come accade da secoli nelle Isole Lofoten, in Norvegia, da cui viene esportato anche in Italia lo stoccafisso più pregiato.

Perché un termine medio-olandese dovrebbe descrivere un prodotto norvegese? L'etimologia non è, come noto, una scienza esatta, e l'incertezza cresce man mano che si va a ritroso nel tempo. Wikipedia cita come possibile origine alternativa, senza fonti, il norvegese "stokkfisk": bene, da Store Norske Leksikon apprendiamo che si tratta di un'alternativa a "tørrfisk", termine con cui si designa oggi lo stoccafisso in norvegese (sia bokmål che nynorsk), benché non si rintraccino informazioni circa la sua prima attestazione. Wikipedia, ancora senza fonti, riporta come ulteriore possibilità la città norvegese di Stokke, che dalle Isole Lofoten di cui sopra dista 3 ore e mezza di aereo, ma da cui, in poco più di un'ora di auto, si arriva a Oslo. E si arriva anche al bello.

Oslo era una delle città norvegesi in cui erano maggiormente vivaci gli scambi commerciali della Lega Anseatica. L'altra era Bergen, dove troviamo ancora oggi un quartiere, Bryggen, chiamato anche Tyskebryggen, ossia "approdo dei tedeschi", in quanto sede degli scambi di cui sopra, riguardanti nello specifico cereali e... stoccafisso. Della Lega Anseatica facevano parte città tedesche ma non solo, da cui l'adozione di una lingua franca, il basso tedesco, citato da Oxford Dictionaries come altra lingua in cui si rinviene "stocvisch"!

La mia ipotesi è dunque questa (ho quasi finito, promesso). Un termine norvegese "stokkfisk*" potrebbe essere entrato nel basso tedesco, adattato in "stocvisch" e da qui si sarebbe poi diffuso ad altre lingue, come l'inglese "stockfish" e l'italiano "stoccafisso": Cornelius Walford, nel 1881, citava Londra, Livorno, Messina e Napoli come affiliate a vario titolo alla Lega Anseatica. Peraltro, uno dei piatti principali della cucina messinese è il "piscistoccu", lo stoccafisso, che si ritiene sia stato importato dai normanni in seguito alla conquista dell'isola partita proprio da questa città nel 1061: tale data deve dunque far supporre che "stokkfisk*", più che norvegese, sia norreno.

È infine possibile che si debba il termine "stoccafisso" a Pietro Querini, un mercante veneziano che nel gennaio 1432 naufragò a Røst, nelle Isole Lofoten, per riuscire a tornare in patria nell'autunno dello stesso anno, non prima di essere passato per Bergen, Oslo e Londra (storia divenuta, tra l'altro, un'opera lirica di discreto rilievo nazionale e internazionale). La causa del naufragio? Una tempesta!

venerdì 13 maggio 2016

Barney e Maria Pia

Dopo anni di assenza dai blog, dopo essermi auto-confinato su Facebook (pur continuando a rimanervi), dopo aver taciuto i miei interessi per coerenza con la mia indifferenza verso gli altrui, ho deciso di cambiare rotta. Inauguro oggi questo mio spazio personale, il terzo della mia vita. Potrò parlare davvero di tutto: un film o libro che ha attirato la mia attenzione, una pietanza con cui ho deciso di cimentarmi, un'esperienza e le emozioni ad essa collegate. Senza dimenticare le parole, che adoro e che sono la mia professione, in quanto traduttore.

I miei ringraziamenti vanno a due persone in particolare. Una di queste è il fittizio Barney Panofsky, protagonista del romanzo pseudo(?)-autobiografico La versione di Barney (Barney's Version, 1997) di Mordecai Richler, il quale mi ha fatto capire quanto possa esser divertente e interessante leggere e scrivere, ascoltare e parlare di cose apparentemente tutt'altro che divertenti e interessanti: ciò che conta è trovare il giusto interlocutore! (mi permetto di consigliarvi anche il film del 2010, caso non comune di trasposizione riuscita)

La seconda persona invece è reale, per quanto non abbia l'onore di conoscerla. Si tratta di Maria Pia Montoro, di professione terminologa, traduttrice e web content manager, che gestisce il blog WordLo e che, tramite l'illuminante webinar Pubblicare in rete (preludio al laboratorio Web Content Enjoyneering), mi ha definitivamente spronato a lasciarmi alle spalle qualsiasi incertezza e mi ha reso ancor più consapevole di quanto sia necessario essere visibili nella nostra professione comune.

Pronto al salto!